Domenica scorsa sono andato a Torino, bella città ricca di cultura, per approfittare di due iniziative, che si tengono la prima domenica di ogni mese: un grande mercatino di libri usati proprio di fronte alla stazione di Porta Nuova e l’accesso gratuito ad alcuni musei.
Molto interessanti il palazzo e l’ameria reali, ma per me soprattutto il Museo Archeologico. Carino e ben strutturato offre una panoramica storica dalla preistoria fino al Medioevo, con particolare riferimento al territorio di Torino e del Piemonte. La location è molto interessante: si tratta del sotterraneo dell’edificio che ospita la Galleria Sabauda e si trova al livello dell’orchestra del teatro romano, del quale è possibile scorgere la parte iniziale dei gradoni della cavea.
Farò un breve commento di 4 oggetti che mi hanno colpito particolarmente.
Il primo gruppo di oggetti, all’apparenza brutti e informi, è forse ancora più interessante delle parti di statue bronzee nei pressi delle quali è collocato. E’ raro vederli nei musei dato che spesso prevale l’idea che ciò che è antico debba essere bello.
Si tratta di resti del processo di produzione, scarti d’offina che ci mostrano come gli antichi realizzassero gli oggetti in bronzo, piccoli frammenti in argilla dall’impasto piuttosto grossolano della “forma esterna” nella tecnica a cera persa, la cui parte interna era lo stampo in negativo di ciò che, in positivo, sarebbe stata il prodotto.
Nella foto si può vedere in verde il calco moderno ottenuto dai frammenti antichi: si tratta di parti della testa di una statua e di un’applique leonina.
Il secondo oggetto mi è particolarmente caro, dato che è molto simile a uno della mia tesi di laurea, anche per quello che riguarda la datazione tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C.. E’ un piccolo specchio, con una cornice quadrata in piombo nella quale era inserito un vetro, che doveva il suo potere riflettente al fatto di presentare un fondo scuro, oggi scomparso, presumibilmente ottenuto con un sottilissimo strato di piombo. Lo stesso principio lo ritroviamo ad esempio in una televisione, nella quale possiamo specchiarci quando è spenta e quindi nera, ma non quando è accesa e luminosa.
Se gli specchi dei ricchi romani potevano essere riccamente decorati e realizzati in metalli preziosi lucidati, specialmente in argento, quelli della “gente comune” erano realizzati, almeno fino al I secolo d.C., con una particolare lega affine al bronzo e perlopiù erano semplici dischetti o rettangoli di pochi millimetri di spessore dai bordi grossolani, anche se non mancavano medelli più complessi dotati di manici.
Di datazione analoga al pezzo della mia tesi, l’esemplare di Torino ci prova come lo specchio come lo conosciamo oggi sia nato verso la fine del I secolo d.C..
Il terzo oggetto è uno splendido busto in argento dell’imperatore Lucio Vero (161-169 d.C.), che, assieme a numerosi altri preziosi, faceva parte del tesoro di Marengo. E’ impressionante notare la somiglianza del volto, con quello presente sulle monete dello stesso. Ciò ci dimostra ancora una volta la grande abilità e la grande aderenza al vero degli antichi incisori.
Il quarto e ultimo oggetto è una stele funeraria di una donna di nome Vettia Prima, realizzata in marmo Pentelico, quindi greco, nel corso del I o del II secolo d.C..
A Vettia Prima, figlia di Stazio, i figli Marco Licinio Celere e Lucio Licinio Vero curarono la realizzazione.
Si tratterebbe di una stele abbastanza impersonale, se non fosse per la presenza nella zona inferiore di un asino o mulo, sul cui significato si può solamente speculare (scena di vita quotidiana? Animale preferito? Attività di famiglia nel commercio di questi animali?). Ma ciò che mi ha colpito maggiormente è un particolare, all’apparenza insignificante e che nessun altro sembra aver notato, che, in base alla profondità del solco e allo stile realizzativo estremamente grossolano, fu aggiunto in un secondo momento da mano inesperta.
Tale elemento aggiunge a mio avviso un tocco di umanità alla fredda pietra e al formulario standard utilizzato nell’incisione. Credo che sia stato realizzato da un parente, forse proprio da uno dei due figli, ma in ogni caso da una persona che aveva voluto bene alla defunta.
Si tratterebbe di un caduceo, o kerykeion in greco, cioè il bastone sacro di Hermes/Mercurio, patrono anche dei commercianti (ho ipotizzato un legame col commercio dei muli), ma soprattutto psicopompo, cioè guida delle anime dei defunti nell’aldilà.
Il caduceo poteva essere realizzato in una grande varietà di modi diversi e in effetti nella nostra stele appare molto stilizzato e rigido, ma non mancano i confronti.
Credo inoltre che siano non casuali la collocazione e l’orientamento del caduceo. Esso è infatti posto subito sotto il nomen della defunta ed è inclinato verso il basso, verso l’Ade, assumendo in tal modo la valenza di una richiesta rivolta a Mercurio: portare Vettia quanto prima e senza ulteriori sofferenze nella sua ultima dimora.
BIBLIOGRAFIA
G. Lloyd Morgan, Description of the Collections in the Rijksmuseum G. M. Kam at Nijmegen, IX, the mirrors, Nijmegen, 1981.
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